Le lotte studentesche in Francia (1994-1995)

di Jacques Wajnsztejn

Traduttore : Riccardo d'Este

articolo estratto da : Squadernare la Scuola, Torino, Quattrocentoquindici, 1995.

Riprendendo dei temi già trattati nella rivista Temps Critiques (n. 8), vorrei, nel quadro di un articolo per l’Italia, partire dalle posizioni espresse da “operaisti” italiani nella rivista francese Futur Antérieur (n. 23-24)1.

Fedeli alla loro apologia del lavoro produttivo non fanno altro che attualizzarlo portando avanti la figura del lavoro immateriale, nuova centralità della produzione “diventata sociale” (!), e gli studenti formerebbero la componente attiva di questo lavoro immateriale.

Tutto viene ancora analizzato in termini di produzione e non di riproduzione. Il cip è dunque visto come un attacco padronale nel quadro di una ristrutturazione postfordista che avrebbe come base il costo del salario. Che il cip sia stato il prodotto della gestione tecnoburocratica dello Stato (nessun problema quindi a fare marcia indietro), che la cnpf (organo del padronato francese) sia stata alquanto contraria, è stato passato sotto silenzio dai nostri operaisti!

Siccome costoro analizzano tutto in termini di produzione, tutti i provvedimenti adottati dal Governo vengono colti sotto l’angolo visuale della razionalità economica (abbassare il costo del lavoro, integrare lo studente nella vita produttiva, gerarchizzare i salari eccetera). È vero che tanto nella primavera del ’94 che durante questo inverno del ’95 si trovano gli iut all’origine dei movimenti di protesta.

In effetti, questi istituti di studi superiori brevi, in due anni, per la loro articolazione scolastica e professionale, il loro statuto gerarchico intermedio, costituiscono il nuovo livello minimo necessario per trovare un impiego per i giovani qualificati.

Con i provvedimenti del 1994 (paga al salario minimo, a fronte dell’impegno della loro formazione nell’azienda) e del 1995 (impedir loro di continuare gli studi al di là dei due anni), lo Stato intendeva fissare e gerarchizzare chiaramente i differenti livelli della fine del corso di studi in modo da rimediare alle impasses di una democratizzazione-massificazione sempre più grande del suo sistema scolastico (l’obbiettivo dell’80% di una certa classe di età è il diploma).

Ma se il problema del crescente scarto tra il numero di diplomati e i bisogni di manodopera qualificata è evidentemente di natura economica, di capitale importanza sono le ripercussioni sociali e politiche di questo fenomeno a livello dell’intera società. Per gli studenti che difendono le pari opportunità e la libera scelta dei corsi scolastici, si tratta di prendere alla lettera l’ideologia democratica, anche se non viene fatta alcuna critica vera al suo complemento: la selezione “meritocratica” di cui tuttavia si conoscono le implicazioni sociali inegualitarie. Di conseguenza, gli studenti difendono permanentemente le loro posizioni.

Quanto allo Stato, la situazione è per esso esplosiva poiché mette a nudo il carattere volontarista (e sostitutivo) del suo sistema di ascesa sociale attraverso la Scuola. È questo aspetto politico, in senso forte, che i nostri operaisti trascurano.

Poiché essi non avevano visto, nel movimento, nessuna critica del lavoro in quanto tale e rilevavano, nel linguaggio sindacale, una rivendicazione per un “salario degli studenti”, costoro sono giunti contraddittoriamente a denunciare la volontà capitalista di trasformare il “lavoro formativo” in lavoro produttivo e ad incoraggiare come forma di emancipazione la lotta salariale degli studenti.

Ciò è far l’apologia del lavoro salariato in un momento in cui questo viene messo in discussione dal sistema stesso, nel quadro della sua ridiscussione più generale del lavoro vivo.

No, non è il lavoro formativo che è sul punto di essere trasformato in lavoro produttivo, ma è la formazione generalizzata a tutti i momenti della vita a costituire un lavoro potenziale e continue, indipendentemente da un lavoro specifico effettuato o da effettuare.2

La generalizzazione della partecipazione massiva agli stage non è il segno dell’integrazione gerarchizzata nella vita produttiva, è invece il segno di una crisi delle attività umane in una società che era fondata sull’ attività di lavoro e che invece progressivamente rende inessenziale questo lavoro.

È quindi una crisi di tutte le attività umane, ivi comprese quelle che riguardano l’educazione, famigliare o scolastica che sia. I rispettivi ruoli di ciascuno di fronte ad apprendimenti fondamentali da mettere in circolazione e a funzioni di socializzazione tendono a confondersi nel quadro di una istituzionalizzazione sempre più grande di questi diversi apprendimenti, di una istituzionalizzazione nello stesso tempo più precoce e più lunga.

Questa istituzionalizzazione non è determinata soltanto dallo Stato; è anche una conseguenza sia della richiesta delle famiglie, sia della individualizzazione. In passato, le opposizioni di classe facevano si che la Scuola non avesse nulla di naturale ed anche che negli ambienti operai ci fosse un impatto tra i valori veicolati dalla famiglia proletaria e quelli della scuola, da cui una relazione molto ambigua con l’istituzione (fierezza in caso di riuscita scolastica, disprezzo in caso di insuccesso). Oggi che i genitori non hanno più niente di specifico da trasmettere in termini di valori perché sono essi che non sono più niente di specifico a livello sociale, non possono fare più altro che mettersi nelle mani della scuola chiedendole di assicurare contemporaneamente socializzazione, educazione e sorveglianza.

Questo transfert famiglia-scuola (anche se non assume le identiche forme né corrisponde alle stesse motivazioni a seconda degli ambienti sociali) è generale e rappresenta la prima manifestazione di astrazione dei rapporti sociali. Questo transfert verso istituzioni astratte ed esterne agli individui conduce a considerare come naturale un sistema di formazione che si fa carico delle persone dalla nascita fino alla fine della “vita attiva”. Se le famiglie hanno “dato le dimissioni” (secondo la definizione degli insegnanti) da cellula formatrice, rivendicano al più alto livello il loro ruolo di utenti-consumatori. Non hanno quasi più doveri ma hanno dei diritti: il diritto all’istruzione* scolastica come il diritto alla previdenza sociale. Questo non sarebbe interessante (e sarebbe addirittura deprimente) se si considerasse questo atteggiamento solo come una conseguenza della società dei consumi che crea dei bambini viziati e degli assistiti (come fanno notare talvolta i liberali). Ma, in modo più fondamentale, evidenzia come la scuola abbia oggi assunto un posto centrale nella riproduzione d’insieme del sistema e dunque sia un luogo altamente esplosivo. In un paese come la Francia, la scuola non è soltanto un’istituzione, è anche un simbolo in duplice senso: la scuola deve corrispondere alla concezione francese dello Stato-nazione (dunque è pubblica, laica, repubblicana) ed alla concezione francese della democrazia (non è importante tanto la libertà ma piuttosto la reale uguaglianza nelle opportunità). A ciò si aggiunge il fatto che la Francia è tradizionalmente un paese dalle strutture sociali abbastanza irrigidite, che offrono scarse possibilità di ascesa. Queste caratteristiche, in qualche modo infrastrutturali, hanno riversato sulla scuola le speranze di ascesa sociale. Tutte le riforme e tutte le misure prese dal Ministero della Pubblica Istruzione vengono esaminate in funzione di ciò e derivano quindi dal politico.3 Anzitutto da una volontà politica (ogni ministre vuole la sua riforma) e poi dalle reazioni politiche a questa volontà, anche se queste reazioni non si considerano tali o addirittura negano questo aspetto.

Questo aspetto fondamentalmente politico di un settore particolarmente importante nella riproduzione è ciò che spiega le oscillazioni ed alla fine il blocco statale, come altresì il succedersi delle lotte in questo settore (1986, 1990, 1994, 1995).

A questo riguardo aprirei una parentesi. Se sono totalmente d’accordo nel riconoscere che attualmente non esiste più istruzione nel senso originario del termine e che tutto viene inglobato in un processo di formazione (cfr. nota 2) nondimeno la scuola continua a durare in quanto istituzione e i problemi e le lotte all’interno di essa assumono il loro aspetto specifico. Non riconoscerlo condurrebbe a svariati errori: il primo, che definirei teorico, nella misura in cui ci si piega all’economicismo in nome della nozione di “risorse umane” e più ancora di gestione delle risorse umane. Se si trattasse solo di ciò, non ci sarebbe alcun problema nella Pubblica Istruzione; al massimo delle disfunzioni specifiche. L’adeguamento tra le differenti fasi della formazione non discenderebbe per l’appunto che dalla gestione e non anche, come ho citato precedentemente per quanto riguarda la scuola, da un principio di legittimità democratica che serve da ideologia allo Stato e da sostituto alla lotta di classe per gli individui (l’ascesa sociale individuale deve essere accessibile a tutti anche se è noto che non tutti se ne avvantaggeranno).

Un seconde errore quindi consiste nel trascurare oltremodo tutto quelle che può succedere nel settore della scuola poiché di fatto nulla più accadrebbe all’inizio del processo ma tutto alla sua fine, una volta “formatasi la risorsa umana” e divenuta in grado di funzionare. Ogni lotta viene dunque analizzata come un tentativo di inserirsi meglio, di gestire meglio la “propria” risorsa umana, di valorizzarla persino nelle sue esperienze di lotta.

A partire da un’origine, da un approccio differente, si ritrovano gli stessi errori compiuti dagli autori operaisti. Il sistema sarebbe iperrazionale e questa razionalità discenderebbe dall’economia e dalle sue leggi. In questo modo dunque non ci si allontana di molto da ciò che si critica, e neppure dal credere a queste stesse leggi del mercato4.

Le lotte del 1994

Anzitutto si può dire che il movimento anti-cip non si può cogliere con una lettura unilaterale; da un lato si può dire che è impregnato dai caratteri della nuova segregazione sociale urbana: centro-periferia-interland (si vedano Parigi e Lione), ma da un altro lato l’importanza della mobilitazione nelle città di medie dimensioni indica una crisi globale dei rapporti tradizionali tra scuola-formazione e impiego.

Non è dunque una forza unica ed omogenea che scende in piazza. E la lotta si alimenta di questa molteplicità: la violenza di Nantes (scontro frontale alla sera, stile Maggio ’68) non è la stessa di Lione (tutti i pomeriggi con flusso e riflusso dei manifestanti e dei birri sino all’inizio della sera) né quella di Parigi (sintesi “autonomi”/“casseurs”). Nello stesso tempo queste manifestazioni si differenziano dalle mobilitazioni forti ma abbastanza da bravi ragazzi delle piccole città di provincia; il modo in cui la polizia ha affrontato i fatti è d’altronde del tutto diverse a seconda delle città.

Nondimeno questa diversità non nuoce all’unità. Così, i casseurs, diversamente dal solito, non hanno agito senza ragioni ed in modo totalmente iterativo. Erano liceali, disoccupati, a volte impiegati, a volte senzatetto e in generale giovani, ma questa diversità non ha impedito loro di essere compartecipi di uno stesso movimento. Questa diversità non ha nuociuto all’unità, bensì ha portato a numerose iniziative individuali o di piccoli gruppi informali. Questo sbriciolamento puntiforme, gli indugi difronte alla tattica da seguire rispetto alle forze dell’ordine, alla violenza, agli elementi “esterni”, sono per l’appunto il segno della diversità delle componenti del movimento.

Questa molteplicità di forze in azione fa si che non si possa ridurre il movimento ad una lotta puramente difensiva. È un movimento contro la distruzione dei rapporti sociali e contro ogni forma di discriminazione. Per questo motivo, e contrariamente ai movimenti del 1986 e del 1990, si apre includendo dei disoccupati, della persone “senza fissa dimora”, tutte vittime di un sistema basato ideologicamente sull’idea di competizione, di sfida e di abilità. Tutto un fascio di valori individualisti che, seppure globalmente accettati ed interiorizzati dagli individui in tempi di normalità, in questi momenti viene criticato.

Nello stesso modo lo scarto, che è stato talvolta evidenziato, tra l’insistenza degli slogan sulla “vita di merda” dei giovani e il carattere gioioso del movimento non deve venire imputato all’incoerenza o alla spensieratezza tipica della gioventù.

Ciò significherebbe non capire che si tratta di una forza attiva (anche se conserva degli aspetti reattivi nella sua opposizione al progetto del governo), una forza in movimento che s’impadronisce subito di tutti gli aspetti della vita. Nello stesso modo, la grande tristezza delle manifestazioni sindacali e politiche tradizionali non è dovuta alla serietà tipica dell’età adulta, alle rivendicazioni responsabili che vengono espresse, ma al fatto che non vi traspira nulla d’altro.

Si è molto insistito sulla violenza del movimento: senza essere premeditata, il più delle volte non è stata neppure una semplice risposta alla violenza poliziesca (smisurata, per esempio a Lione). Questa violenza è una violenza di frattura sociale che dice: il consenso, al massimo, riguarda solo la maggioranza.

Viene dunque colta, spesso confusamente, sia come rottura di un consenso artificiale attorno agli interessi unicamente dei dominanti, e in quanto tale non illegittima a priori, sia come il risultato, che non necessariamente si auspica, di una tensione sociale che è in se stessa la posta in gioco della lotta: “non c’è che quello che il potere conosce e riconosce, ed è questo che lo farà mollare”. Se questa coscienza è possibile è anche perché non è la coscienza di tutti i giovani e di tutto il movimento. Gli appelli alla mobilitazione e alle manifestazioni hanno avuto una grande eco in tutte le città, anche piccole, ma il movimento è più disperso che concentrato, Parigi non c’è, e il numero dei manifestanti non aumenta, gli studenti non si muovono più di tanto e molti dei partecipanti più attivi si rendono conto che non è il loro numero a fare la loro forza, ma la loro determinazione. In un certo modo, si può dire che è un’avanguardia di massa quella che tiene la piazza. Ha l’appoggio della base dei liceali ma costoro non reggono il ritmo di quelli che vogliono imporre una pressione costante. Questo scarto, accentuato dalla paura della polizia e della repressione in tutte le sue forme (nelle scuole verranno comminate delle sanzioni di espulsione), è stata la causa dei declino dei movimento, a Lione, nella settimana finale.

Tuttavia rimane il fatto che i tentativi polizieschi, mediatici e governativi di contrapporre la seria massa dei manifestanti a un’infima minoranza di casseurs sono falliti e sono stati rapidamente abbandonati; le autorità hanno successivamente cercato, controllano l’identità dei manifestanti fermati, una spiegazione ad avvenimenti sorprendenti. Ma viste le cifre (30% di liceali, 30% di disoccupati e precari, 30% di studenti dello iut o bts e soltanto un 10% di studenti universitari), non potevano far altro che rendersi conto della gravita della situazione e della necessita di fare marcia indietro.

Ciò di cui si è molto meno parlato è della dimensione contemporaneamente comunitaria e individualizzata dei movimento. Importanza comunitaria perché è la comunità scolastica che si esprime (dal 1986, i movimenti hanno come quadro dei giovani completamente scolarizzati in senso ampio: scuola, formazione, formazione-lavoro eccetera) anche se si esprime in modo diverse dal 1986. Nel 1986 la specificità degli studenti dell’epoca non era di essere dei privilegiati, ma di essere l’oggetto di una riproduzione particolare, al di fuori del mondo del lavoro, da cui derivavano la loro diffidenza rispetto al mondo degli adulti ed il loro “giovanilismo” virulente. Oggi la crisi del lavoro, e dunque dell’occupazione, è tale che non si possono più isolare delle categorie di vittime, di fatto, gli altri. Per due motivi: in primo luogo: la crisi non è più all’esterno e molti studenti delle scuole superiori hanno genitori disoccupati o precari; in seconde luogo, le frontiere tra lavoro e non lavoro sono sempre più sfumate (stages, cdd, rmi da in lato, cip dall’altro). Di fronte a questa indeterminazione colta massivamente come precarizzazione, la comunità degli studenti si congiunge con la “comunità degli esclusi” in una sorta di vittimizzazione della sua situazione.5

Dimensione comunitaria, abbiamo detto, ma anche individualizzazione. La comunità di riferimento (liceo, iut, banda di quartiere) serve da punto di fissazione e di concentrazione per l’azione, e la rivendicazione spesso serve solo a rinforzare questo riferimento ma, nel movimento stesso dell’azione alcune singolarità cominciano ad esprimersi, gli individui dimenticano la loro identità originaria per una identità provvisoria ed aleatoria nel farsi della lotta. Sotto questo profilo non è per caso che la percentuale di categorie di persone fermate e ritenute violente confermi esattamente la percentuale di partecipazione di queste categorie al movimento complessivo.

Questa individualizzazione si riscontra anche nel fatto che, contrariamente al 1986, nessun coordinamento riuscirà ad emergere da questo movimento multiforme e dalle sue numerose componenti. D’altra parte, in numerose città, (Nantes, Parigi), gli individui “implicati” sindacalmente o/e politicamente hanno partecipato in modo individuale al movimento senza cercare di infiltrarsi o di recuperarlo. È solo in un seconde tempo, diciamo dall’inizio del 1995, che i sindacati studenteschi tentano di capitalizzare le acquisizioni della lotta e che certi gruppi politici, in maggioranza trotskisti, cercano di pescare dei nuovi militanti (“Socialisme international” e “lcr”).

I limiti del movimento.

1. Un limite oggettivo anzitutto: il tempo della formazione è come se fosse sospeso al di sopra del rapporto sociale e consente una autonomizzazione del movimento. Ne discende una sorta di individualizzazione nella lotta. L’implicazione personale in ciò è estremamente variabile (“è un po’ come mi prende”) e in questo vi è una tendenza pesante che riguarda solo i giovani che viene fuori da un lasciarsi trascinare poco entusiasmante.

2. Poi un limite soggettivo: il movimento non si è lasciato imprigionare nella mediatizzazione, ma quanto il ’68 si parlava addosso, tanto il silenzio del ’94 è stato impressionante. Anche in questo si ritrova una greve tendenza che pesa anche su tutti. L’assenza di riflessività dei movimenti sociali, è per il momento generale.

3. Si può anche notare che, come nel 1986 e contrariamente al 1968, il fatto che il movimento sia concretamente incentrato su un provvedimento specifico che ha assunto valore di pretesto, se gli dà una grande forza nell’unità della rivendicazione, ne fa sparire ogni traccia una volta che il provvedimento sia stato ritirato. La rivolta che va ampiamente oltre il progetto governativo si scontra quindi con l’assenza del progetto utopico del movimento.

Come nel 1986, il governo esce indebolito da questo scontro, tanto più che ha ricevuto precedentemente gli avvertimenti della manifestazione contro il finanziamento alla scuola privata, delle lotte dei marinai, dei minatori, degli scioperanti dell’Air France. Già ha fatto marcia indietro sul finanziamento alla scuola privata e si è impegnato in transazioni in altri settori. Ma, a differenza del 1986, non ci sono né ferrovieri né infermiere per prenderne il posto. Ognuno sente la situazione come esplosiva, ma, in attesa dell’esplosione, domina una certa passività.

Siamo tutti a questo punto…

La situazione all’inizio del 1995.

In generale, gli avvenimenti della primavera del 1994 hanno costituito una sorpresa: sorpresa per i governanti, che attribuiscono ciò ad un’incomprensione o a un malinteso; sorpresa per l’uomo della strada (è confortante che i giovani si preoccupino del loro future ed abbiano il coraggio di dire no); infine sorpresa per gli studenti stessi (non si sarebbe mai pensato di essere così forti). La sorpresa ha fatto nascere delle speranze, ma il pessimismo generato dal molle consenso, il cinismo dominante di coloro che hanno desistito da tutto, hanno fatto spesso nascere un problema: cosa ne rimane oggi? Da un punto di vista interne si potrebbe rispondere: nulla. In ogni caso, niente in termini di acquisizioni formali, di strutture o anche di reti di rapporti, di avanzamenti teorici. Il movimento non poteva sbriciolarsi e marcire perché si evolvevane nell’immediatezza. Non c’è più dall’oggi al domani. Ma, siccome d’altronde nulla è stato regolamentato e alle misure di ieri devono seguire altri tentativi, possibilmente più abili, ebbene si può dire che ciò che rimane di questo movimento è la sua perfetta riproducibilità. Tutti si aspettano la ripetizione del 1994.

I nuovi provvedimenti del 1995 (limitare il prolungamento degli studi superiori a breve termine: iut, bts; aumentare le tasse di iscrizione, trasformare l’attuale sistema delle borse di studio in un sistema di prestiti da rimborsare) e le reazioni immediate che hanno provocato ne sono la conferma. La reazione c’è perché tutti sanno che si sta preparando un brutto colpo, anche se manca l’analisi o se essa si contenta di soluzioni semplicistiche dichiarando che “questi tentano di riproporre il cip raddolcito”, riducendo in questo modo di molto l’importanza dei problemi che il Potere deve regolamentare.

 

Glossario delle sigle francesi citate nel testo

  • cip: contratto di inserimento professionale all’80% del salario minimo per i giovani che hanno fatto due anni oltre il diploma
  • cnpf: confederazione nazionale del padronato francese (equivalente alla nostra confindustria)
  • iut: istituti universitari di tecnologia (vale a dire insegnamento superiore a termine breve)
  • cdd: contralto di durata determinata
  • rmi: salario minimo d’ingresso, ovvero la somma che viene elargita sotto forma di salario a coloro che non sono ancora inseriti nel mondo del lavoro
  • bts: licenza degli istituti tecnici superiori
  • lcr: lega comunista rivoluzionaria, organizzazione politica trotskista

 

Note

1 – Gli autori in questione sono: Pantaleo Elicio, Carlo Vercellone, Giuseppe Cocco, Maurizio Lazzarato, Ilaria Bussoni.

2 – “Affermandosi come sistema di formazione professionale continua, l’educazione degli adulti assicura la continuità del valore del lavoro in un mondo in cui deve ormai diventare pressoché assente… La ’soluzione formazione’ […] si è imposta grazie al seguente stratagemma: consentire che sia massivamente soppressa dal lavoro umano dandovi in cambio un equivalente fuori dal lavoro, lo stage di formazione […]. Un tempo dato come un dichiarato diritto ai lavoratori salariati, lo stage di formazione consacra l’esercizio di un obbligo economico per uno pseudosalariato”. Quattordici scolii sull’istituzionalizzazione dell’educazione degli adulti, Jacques Guigou, Temps Critiques n. 4.

* Nella lingua francese il termine éducation corrisponde sia all’italiano “Istruzione” che ad “Educazione”. Infatti, in Francia l’equivalente del nostro ministero dell’Istruzione è detto “ministero dell’Educazione”.

3 – Un esempio semplice: spesso basta essere stato ministro dell’Istruzione per vedere compromessa la propria carriera politica (per citare soltanto gli ultimi esempi: A. Saunier Séité e Devaquet per la Destra; Savary, Chevènement, Jospin per la Sinistra).

4 – Cfr. l’articolo nella rivista Noir et Rouge: “L’economia di mercato non è una nuova forma sociale” come l’articolo “Il valore ed Il lavoro” in Temps Critiques n. 6/7 che tentano entrambi di distinguere tra mito e realtà. (Entrambi questi articoli sono stati scritti da Jacques Wajnsztejn. NdR.).

5 – Se gli studenti delle università (studi superiori a lungo termine) hanno svolto sino ad ora un ruolo debole in queste lotte è in parte perché non giungono per l’appunto a costituirsi in comunità di lotta. Almeno nelle grandi città non vi è più una “vita studentesca”) e le università sono dei luoghi senz’anima in cui gli individui vagano non avendo punti di attracco né di coesione (dispersione dei campus, frammentazione degli orari e delle discipline eccetera).